“L’inaspettata eredità della famiglia Bukowski” di W. Gmehling

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

“L’inaspettata eredità della famiglia Bukowski” dello scrittore tedesco Will Gmehling (La Nuova Frontiera, trad. Angela Ricci, pp. 188, € 16,50) è un romanzo che rende l’idea dell’importanza della famiglia, del forte legame che unisce tre fratelli, una bambina e due maschi; la descrizione della vita quotidiana di una famiglia come tante con molte ristrettezze economiche, che abita una casa troppo piccola per cinque persone dove quindi è più facile scontrarsi e litigare. Sono gli stessi personaggi che già abbiamo conosciuto nel primo romanzo, “La straordinaria estate della famiglia Bukowski”, pubblicato dalla stessa casa editrice e vincitore del Deutscher Jugendliteraturpreis.

Cosa hanno di straordinario i Bukowski? Si riconoscono fra migliaia di persone perché il loro è un legame saldo, vero: sono l’effige, la testimonianza di un fulcro vitale che esiste al di là dello scorrere a volte monotono di giornate che si susseguono una dopo l’altra, una uguale all’altra, ma c’è sempre qualcosa di impercettibilmente diverso, una frase, una parola che non scalfisce il fondamento della loro unità familiare.

Ricordano quello che ha scritto Borges sulla vita, “non sai se ha senso. In certi momenti il senso non conta. Contano i legami.” La disponibilità d’amore, la forza dei sentimenti che può a volte superare i preconcetti del pensare comune, compresi gli schemi della famiglia tradizionale. Il fatto curioso è che la famiglia Bukowski è una famiglia normale, come ce ne sono tante, malgrado i nostri tempi, malgrado il conformismo dilagante che porta altrove e dove tutto può più o meno convivere.

Alf, Katinga e Robbie: i tre fratelli sono dei piccoli eroi, il loro vocabolario è quello dei nostri giorni, momenti di gioia e di tensione sempre stemperati da genitori intelligenti, nel senso che comprendono e amano i loro figli e desiderano il loro bene. Robbie il più piccolo è diverso dagli altri, un po’ lunatico e interessato alle stelle, del resto meglio alzare gli occhi verso il cielo che guardare a terra. Katinga è un fenomeno di determinazione e vivacità. Studia francese e ad appena nove anni sa già che vuole diventare una famosa stilista. Alf è l’io narrante, il fratello maggiore appena adolescente e già innamorato. “Andavo volontariamente a farmi prendere a calci e pugni, inventavo poesie e fissavo il fiume. Essere diversi è normale, ho pensato mentre mi lavavo i denti in bagno. Devi essere per forza diverso, altrimenti la vita non potrà regalarti nulla.”

Stavolta la routine quotidiana sarà rallegrata da un fatto eclatante, straordinario, quasi un miracolo perché è vero che ricevere un’inattesa, imprevedibile eredità cambierà la loro vita e quella dei loro genitori e parenti e li renderà più sereni e fiduciosi del domani.

A cura di Eugenia Marzocca psicologa, psicoterapeuta, ippoterapeuta

Il romanzo di Catherine Fradier “Dacca Toxic – Cronache lunari di un ragazzo bizzarro” (Uovonero, trad. Sante Bandirali e Ilaria Piperno, pp. 169, € 15,00) per la ricchezza di temi e atmosfere rende perfettamente fatti terribili e spaventosi per uomini e animali che connotano la realtà quotidiana di una città come Dacca, la capitale del Bangladesh, “la città più inquinata del mondo”. E tutto ciò è raccontato da un ragazzino autistico. “Un autistico di livello 1”. Che cosa significhi è ben noto ai nostri giorni anche se le interpretazioni degli psicologi sono varie e il merito è anche di libri come questo. L’autismo non sempre implica deficit di intelligenza, né ritardo nel linguaggio. Nel caso del nostro protagonista Sacha Sourieau è molto intelligente, bravissimo a matematica, ma ha seri problemi quando deve comunicare con gli altri, soprattutto coetanei; non riesce a interpretare in forma immediata le consuetudini sociali e soprattutto non sa controllare le proprie emozioni. Altra caratteristica è l’inclinazione a interessarsi in modo esclusivo a temi precisi, molto specifici e a volte complessi e importanti con un atteggiamento quasi ossessivo che esclude ogni altro campo di conoscenza che richieda attenzione. Ma torniamo al romanzo. Sacha è a Dacca perché la sua mamma è la dottoressa Sourieau impegnata come medico per una ONG. Qui incontra una ragazzina di nome Sultana che lavora con turni massacranti e in condizioni disumane in una conceria che non avendo nessuna protezione sia per adulti che per ragazzi, ha perso un occhio. Nessuno degli operai che lavorano in questa struttura indossa una maschera e sguazzando la maggior parte a piedi e mani nude in pozzanghere di acido corrosivo che toglie il respiro e ferisce la pelle. “A Hazaribagh la vita media non arriva a cinquant’anni.” Il fratello di Sultana più grande di lei, Dilip, è dipendente di un macello dove anche qui viene violata costantemente la legge con l’appoggio della classe politica. In Bangladesh i bambini possono lavorare per cinque ore al giorno, in realtà lavorano almeno dodici ore al giorno sette giorni alla settimana. Dilip vorrebbe rivolgersi al Sindacato dei conciapelli portando una serie di prove perché risarciscano la sorella, ma lo polizia vuole farlo tacere. Sacha sarà suo malgrado coinvolto in una estenuante e pericolosa fuga per aiutare l’amico, attraverso luoghi dove anche gli stessi animali da macello, le vacche in questo caso, sono torturate prima di essere “decapitate, eviscerate, squartate”. Il nostro protagonista rimarrà sconvolto da tanta crudeltà ma anziché cedere, tirerà fuori tutto il suo coraggio per salvarsi insieme a Dilip e denunciare l’accaduto ricorrendo al suo intuito particolare e alle sue indubbie doti intellettive.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

Nel libro di poesie di Ruggero Marino, colpisce ciò che spiega Giuseppe Carrisi nella Prefazione: «Certo l’Italia non è il Messico, il Paese dei femminicidi per eccellenza. Oltre tremila la media delle donne uccise in un anno, in un mix di criminalità e cultura machista. Ma anche noi stiamo vivendo un’emergenza sociale senza precedenti. Lo dicono i numeri. Freddi, impressionanti, che però fotografano una realtà inconfutabile. Un dato, in particolare, colpisce più degli altri: nel 2022, ogni tre giorni circa è stata uccisa una donna. E i conti sono presto fatti. Cambiano i luoghi, cambiano i pretesti, cambia l’età delle vittime e dei carnefici. La violenza assassina è sempre la stessa». Il tema della violenza investe in pieno anche gli uomini. Tanti sono gli interrogativi senza risposta, è una pretesa impossibile pretendere spiegazioni univoche. Si dovrebbe partire dall’origine della vita: è nata da una casuale sequenza di fatti inverosimili, o c’era all’inizio un disegno preciso? Perché ci sono due sessi? Si può distinguere fra il principio maschile e quello femminile? L’attuale e giusta tendenza all’uguaglianza dei diritti si scontra con una verità che non è soltanto storico-sociale. C’è un personaggio in un racconto di Karen Blixen che dice, a proposito dell’emancipazione femminile: «Per un certo periodo di tempo Adamo poté vagabondare a suo piacimento su una terra nuova e serena, tra gli animali, nel pieno possesso dell’anima sua… ma la povera Eva trovò l’uomo già insediato sulla terra con tutte le pretese su di lei sin dal primo momento in cui vi pose piede…». Le pretese si sono attenuate, forse, ma se diamo la caccia al tempo passato «dobbiamo accontentarci di acchiapparlo per la coda e alla rovescia».

All’inizio del movimento femminista parecchie giovani donne, le più intelligenti e geniali, uscirono dalla penombra di millenni per vivere libere, per recuperare il tempo in cui erano state in qualche modo prigioniere. Avevano fretta di assaporare fino in fondo i doni della vita. La propria esistenza sembrava a ognuna più importante di qualsiasi altra cosa. Destinate per tradizione a rimanere ferme, scoprirono per vari motivi l’avventura, la ricerca, cioè un altro modo di essere se stesse. E proprio il viaggio fu uno dei banchi di prova della libertà, perché anche se si rimaneva chiusi in una stanza come Emily Dickinson, c’era sempre uno spostamento, cosicché nessuna che attraversasse la poesia, o l’amore o la ribellione ritornava mai uguale a prima. Nell’area occidentale il femminismo si è affermato da tempo, le donne sono entrate nelle roccaforti del potere, della scienza, della legge. «Come gli Achei a Troia, si sono introdotte dentro le mura nascoste nel ventre di un cavallo di legno», possono ora procedere a fronte scoperta, abbandonando i travestimenti usati per imitare le professioni virili. Nonostante questo, spesso sono ancora schiave dell’armamentario psicologico e mentale degli uomini, della deformante influenza dell’altro sesso.

Le poesie di Ruggero Marino hanno il merito di riportare l’attenzione proprio su questo. Come lui stesso spiega: «Nel nuovo secolo la brutalità non si arresta, anzi. E il virus, reclusi nelle case, ha moltiplicato gli agguati. Questa è la realtà di cui i versi si fanno portatori per scuotere le coscienze, con un pugno allo stomaco per chi legge… Sperando che almeno la poesia possa toccare gli animi. Un’opera dedicata alle donne, ma che andrebbe letta soprattutto dagli uomini». Un incoraggiamento a parlare senza nessun timore dell’essere umano femminile, a riconoscere la validità dell’elemento proprio della donna nel suo desiderio e nella sua volontà di scegliere se agire come persona insieme all’uomo. È la diversità che favorisce l’intesa e stimola l’ispirazione fondamentale per lo sviluppo e l’arricchimento di ognuno, uomo e donna che sia. Riconoscerla con rispetto aiuterà a riscrivere le storie interiori, forse a celebrare la rinascita di un nuovo umanesimo.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

E’ difficile oggi immaginare l’impressione terrorizzante che provocarono gli Unni, i barbari guidati dal leggendario Attila, ai confini di quello che era ancora l’impero romano. Il romanzo di Davide Morosinotto, “Il Figlio del Mare – La saga dei Da Mar” (Mondadori, ill. Lucrezia Bugané, pp. 368, € 17,00), è ambientato proprio in quel momento, precisamente nell’anno 452 dopo Cristo. Siamo ai prodromi del medioevo. Come spiega l’autore nell’introduzione le persone dell’epoca si sentivano romani, le loro case erano le “domus” e i soldati i legionari. Poi arrivarono i barbari, i veri protagonisti di questo romanzo, che racconta quel pezzo di storia in modo accattivante attraverso le avventurose, drammatiche vicende di un ragazzo quattordicenne, Pietro, che viveva senza farsi tante domande in una fattoria occupandosi di maiali al servizio del prepotente signore di Ateste, oggi Este. Scrive l’autore che lo scenario di questo è il luogo dove è nato e cresciuto, uno scenario completamente mutato, ma ci sono ancora Padova (Patavium), Milano (Mediolanum), milleseicento anni fa più importante di Roma, e Ravenna che allora era la capitale dell’impero di Occidente. E la laguna di Venezia su cui da una miriade di isole ravvicinate sorse la più suggestiva e fantastica città del mondo.

I disegni incorniciati come arazzi accompagnano la storia di Pietro e Giustina, la nobile figlia del “Clarissimo”, il suo padrone, che per una serie di casuali eventi diventa la sua compagna di viaggio e poi chissà. Sono illustrazioni che rappresentano ciò che avviene tra un capitolo e l’altro aiutando a capire meglio la vita quotidiana di quei tempi lontani e in gran parte sconosciuti.

Anzitutto la descrizione di Pietro: “a quattordici anni sembrava già un mezzo gigante con spalle larghe, capelli rossi e la pelle chiara, che si scottava sempre, tanto che ogni sera la mamma doveva spalmargli la schiena con un intruglio fatto di grasso ed erbe.” Mentre si trova nella casa del suo signore con un maialino ancora vivo in spalla da fare arrosto, giunge il messaggero con la ferale notizia dell’invasione dell’esercito degli Unni. Occorre difendersi, il ragazzo deve mettersi in cammino per affrontare con gli altri i terribili nemici che cavalcano armati fino ai denti su selle che li rendono invincibili. Grande sarà lo stupore di Pietro quando viene a sapere dalla mamma che è figlio di un barbaro e non dell’attuale marito della donna, con il quale c’era sempre stato un pessimo rapporto. E’ l’inizio per il giovane di una grande avventura che lo porta a conoscere meglio il suo carattere e a prendere coscienza delle sue potenzialità, non solo fisiche essendo forte come un toro ma anche intellettuali. Si accorge di possedere un carattere forte e spregiudicato pronto ad affrontare imprevisti e difficoltà inimmaginabili. Già da tempo del grandioso passato dell’impero romano erano rimaste poche tracce e soprattutto una sorta di lento disfacimento che rendeva i romani più confusi di quei guerrieri pronti a tutto pur di vincere, assetati di terre e ricchezze.

Il lettore viene quindi immerso in un’epoca così remota da sembrare una favola oscura, ma costellata di fatti, uccisioni, battaglie accadute realmente. La lotta per il Potere con la P maiuscola si pone in tutta la sua evidenza allora come oggi. Quando mai l’umanità ha imparato qualcosa dagli eventi passati? Gli uomini non hanno memoria o non vogliono ricordare perciò in un vortice inarrestabile la storia prosegue il suo corso.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

Dal titolo si comprende tutto: Francesca Mannocchi con il suo ultimo libro squarcia il ristretto orizzonte in cui viviamo per aprirci al mondo. “Lo sguardo oltre il confine – Dall’Ucraina all’Afghanistan, i conflitti di oggi raccontati ai ragazzi” (De Agostini, pp.224, € 13,90), è un libro che descrive uno scenario inquietante, basato su una testimonianza diretta sugli avvenimenti e scontri che caratterizzano buona parte del nostro pianeta.

Libano, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina. I conflitti di oggi ai confini con l’Europa non si contano e sono terribili, perché sovente caratterizzati da guerre fra gruppi di persone che fanno parte della stessa popolazione. Niente di più violento perché se la guerra è sempre l’estrema ratio, la lotta armata fra persone affini la rende ancora più atroce perché senza via di uscita.

Non è un caso che nella Bibbia la storia dell’uomo inizi con un duello mortale fra due fratelli e che molta strada sia stata fatta da quell’episodio violento, divenuto leggendario. La demitizzazione del male è avvenuta in tempi recenti, ma se l’uomo moderno ha cercato la verità che si celava sotto il velo del mito, la rappresentazione del male è espressione di una potenza antica le cui ragioni sfuggono alla comprensione razionale. Ugualmente la guerra, dimensione in cui dominano le tenebre e vagano ombre livide; i conflitti sanguinosi che caratterizzano la storia dell’uomo dalle origini, scavano un abisso nel quale sprofondano in silenzio, senza lasciare traccia sentimenti e valori. In guerra l’uomo si trasforma “in un essere spaventoso e oscuro”. “E’ su quell’essere spaventoso e oscuro che siamo chiamati a interrogarci”, scrive l’autrice. Quando comincia una guerra, negli esseri umani si risvegliano gli istinti più feroci, e vincitori e vinti si perdono nel miserando caos del mondo. Basta leggere “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Herich Maria Remarque per capire l’assurdità e l’iniquità della guerra.

Con grande efficacia e introducendo parti di storia e cronologia dei vari eventi, la Mannocchi descrive la guerra civile libanese (1975 -1990) fra le Forze libanesi cristiano-maronite e il Movimento nazionale appoggiato dall’OLP ( Organizzazione per la liberazione della Palestina). Costò 150.000 vite e 300.000 feriti , più l’emigrazione di quasi un milione di persone. Beirut era ritenuta la Parigi del Medio Oriente, percorsa dal vento del deserto e dal profumo dei fiori di limoni e di mare. Oggi è una città semi-distrutta, in cui prevale un sentore di morte, di polvere, di spazzatura, di rovine e di antichi massacri da entrambi le parti in lotta, che sedimentano odio e divisione.

Sciiti e Sunniti: un contrasto in medio oriente che sembra senza vie di uscita. Così l’Afghanistan e la sua storia martoriata, divenuto un Paese dopo vent’anni di guerra, desolato, dove ci sono decine di migliaia di persone che vivono in povertà, bambini malnutriti, giovani senza futuro e per le donne proibizione di andare a scuola e di uscire di casa. La storia dell’Iraq non è molto diversa: dal 2003, l’anno dell’invasione statunitense, la maggioranza degli studenti “hanno ricordi costruiti sulla guerra, la disperazione e le atrocità”. In quanto alla Libia l’autrice racconta con dovizia di particolari la fine del regime autoritario di Gheddafi e il disordine successivo, determinato dai gruppi armati che dopo la “rivoluzione” hanno preso sempre più potere nel territorio combattendo tra loro senza esclusione di colpi. L’amico Husen le dice: “Prima avevamo un rais, dopo la sua morte siamo rimasti a fare i conti con tanti piccoli Gheddafi.”

La Siria, altro Paese dilaniato da un conflitto civile non ancora risolto, dove sono stati uccisi circa 40.000 oppositori al regime di Bashar al-Assad. Per finire l’Ucraina che ha subito l’invasione russa e dove la guerra è ancora in corso. Adulti e ragazzi vogliono difendere la propria terra, i propri diritti.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

“Non hai mai visto le farfalle rosse, gialle e bianche? Sembrano quasi dei fiori e lo sono anche state, ma poi hanno spiccato un gran salto, si sono staccate dal gambo, hanno agitato i petali come fossero piccole ali e sono volate via.” Per Andersen i fiori rileggendo “I fiori della piccola Ida”, ballano, amano e sanno anche volare, e non è una fantasia. Si sa nelle fiabe può accadere di tutto, ma a leggere il libro di Stefano Roccio, biologo e illustratore, “La natura non ha Copyright ” (Trasversale Beisler, pp.111, € 19,00), l’universo naturale che ci circonda supera di gran lunga ogni immaginazione. L’autore descrive infatti un excursus avvincente sui meccanismi che regolano la natura e la ricerca dell’uomo fin dall’antichità per cercare in essi chiarimenti e soluzioni alle esigenze e ai bisogni dei nostri tempi.

Facciamo un esempio. Scrive il biologo: “I ragni godono di una pessima fama per la loro reputazione di killer velenosi che film e documentari hanno contribuito a creare. In realtà, dando la caccia a fastidiosi insetti, questi animali non solo sono nostri alleati, ma anche incredibili costruttori. La seta che producono e utilizzano per costruire le ragnatele si appresta a diventare uno dei materiali del futuro.”

Sapevate che gli squali, tra i predatori più temibili dei nostri mari, hanno contribuito a scoprire attraverso i loro “denticoli termici” come produrre una superficie sintetica che imitando la trama della pelle dello squalo impedisce “ai microbi di colonizzarsi e moltiplicarsi.”? Non si contano gli animali indispensabili alla nostra sopravvivenza tra cui le api. Non solo per i loro comportamenti sociali che si ritrovano anche nelle formiche e nelle termiti, ma per il loro efficiente metodo di comunicazione che potrebbe tornare utile all’uomo per usufruire al meglio di apparecchi elettronici e di elettrodomestici.

La Biomimesi, ovvero la disciplina che studia le scoperte ispirate dall’osservazione della natura, ha radici antiche che risalgono alla preistoria se è vero che l’essere umano era immerso nel mondo naturale e cercava in esso soluzioni ai suoi problemi. E’ un termine che è stato coniato abbastanza recentemente negli anni Cinquanta dal fisico e inventore americano Otto Schimtt. Tuttavia, scrive l’autore,”Le meraviglie della Terra hanno sempre catturato la nostra immaginazione e sono rappresentate in racconti popolari, leggende e opere d’arte in tutte le epoche e civiltà. Un esempio è il mito di Dedalo e Icaro…”. Ma il più grande antesignano della Biomimesi è stato Leonardo da Vinci, “un uomo in anticipo sui tempi e un acuto osservatore; lo dimostrano le sue annotazioni e i suoi schizzi di “macchine volanti” che imitavano l’anatomia e la tecnica di volo di uccelli e pipistrelli.”

La vita moderna ha allontanato gli uomini dai lenti processi della natura, oggi infatti sempre meno sono in grado di stabilire un rapporto contemplativo con il mondo naturale, anche se ne hanno un bisogno organico insostituibile. L’ecologia ha portato un contributo determinante, ma l’utilitarismo nel senso baconiano del termine sovente prevale. Ebbene questo libro insegna molte cose e soprattutto a capire che il linguaggio del mondo naturale di cui fanno parte piante e animali è totale e nello stesso tempo contiene molte lingue. Basta saperle ascoltare.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

I “Miti Greci – Dei, creature e mostri dell’antica Grecia” di Jean Menzies e Hotie Ponder (Gribaudo, trad. Anna Fontebuoni, pp. 153, € 19,90) confermano una volta di più che non ci sono limiti di tempo e di età nelle storie che rappresentano in maniera fantastica l’origine dell’universo. Attraverso vivide immagini di forte impatto visivo gli autori raccontano grandi eventi intrecciati e complessi che colpiscono ragazzi e adulti perché riconducibili da quelli più grotteschi e fantasiosi a quelli più rassicuranti, al mistero dell’inizio dell’umanità. C’è infatti in queste narrazioni tutto ciò che fa parte dell’essere umano. Dai moti d’animo più nobili quali l’amore, l’innocenza, la forza, il coraggio, la generosità, il perdono a quelli più diffusi ossia l’odio, la collera, la disperazione, la follia, la fragilità, l’invidia, la crudeltà e via dicendo. Certo è che il vaso di Pandora era meglio per il mondo fosse rimasto chiuso perché quando “la prima donna” ebbe preso un’incantevole forma creata con manciata di terra dallo stesso Zeus aiutato da Efesto, nessuno aveva previsto che la sua curiosità avrebbe portato un immane scompiglio tra gli umani. Pandora infatti aprì il vaso proibito sigillato da Giove senza essere consapevole della gravità del suo gesto e “tutto ciò che vi era di malvagio si sparse nel mondo.” La Terra, prima tranquilla e luminosa, fu invasa da una nuvola maligna: follia, malattie, vizio, guerra, fame, vecchiaia erano stati liberati. Prometeo, incatenato dal suo remoto luogo di punizione, pianse disperato per il destino infelice che investiva gli uomini, le sue creature. Ma dentro al vaso era rimasto qualcosa, una piccola cosa appiccicosa, una crisalide; significava che non tutto era perduto: all’umanità sarebbe rimasta la speranza.

Come scrive Jean Menzies: “L’antica civiltà greca si diffuse in tutto il Mediterraneo, ma ogni regione anche la più lontana, condivise gli dei e gli eroi.” Sono loro che hanno popolato e dato vita eterna ai miti, che non sono favole remote o vecchie leggende religiose, sono qualcosa di più. Anche se spesso sono rappresentate come una serie di vicende distinte l’una dall’altra e offrono una gamma infinita di possibili combinazioni, si comprende da questo libro che ciascuna può assumere un significato complessivo, narrare una storia esaustiva senza tradire lo spirito dell’universo olimpico.

Basti rileggere il mito di Orfeo, il più grande musicista della Terra, ed Euridice e la forza del loro eterno amore. Rianimare figure di eroi come Ulisse, le cui vicende si espandono in uno scenario senza confini dove avvengono cose fantastiche ai limiti del fantasy più sfrenato. Per non parlare delle Amazzoni, le donne guerriere, figlie del dio della guerra Ares, che vivevano in luoghi isolati e allevavano solo figlie femmine, i maschi li lasciavano ai padri. Incredibile ma sempre attuale è la storia di Mida, sovrano della Frigia punito dal suo desiderio inesausto di possedere oro. Per non parlare della potente maga Circe, figlia di un dio, che seduceva gli uomini trasformandoli in animali, mentre Aracne, comune mortale, paga cara la sua sfrontata sfida alla dea Atena. Non aveva capito che nessuno può mettersi in competizione con una divinità e così viene punita e trasformata in un ragno peloso dalla cui bava escono fragili tele. Alcune figure di donna hanno assunto anche grazie alle tragedie di Euripide una dimensione epica quali Medea, la figlia del re della Colchide, Eete. Era una giovane piena di temperamento, ribelle e coraggiosa. Si innamora di Giasone e pensa di vivere con lui e i loro figli un’esistenza felice, ma viene raggirata e tradita; così reagisce vendicandosi in modo orribile.

Insomma al principio erano gli dei che rappresentavano in modo fantastico e accattivante il contrasto tra le brevità delle singole esistenze umane e l’incessante intreccio di potenze invisibili e fatali. Ai nostri giorni non è certo credibile che gli dei partecipino agli affari umani, ma è segno di vitalità e passione immergersi nel loro mondo e non dimenticarlo credendo casomai alla possibilità di costanti trasformazioni e capovolgimenti che riescano a rendere la vita accettabile e lieta malgrado la sua inevitabile incertezza.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

Ai ragazzi di oggi non può non interessare la figura di Gandhi, un uomo divenuto subito un’icona, un eroe, un personaggio che travalica i confini del suo tempo. Chiara Lossani ricostruisce la sua vita e il suo messaggio immaginando possibili incontri fra ragazze e ragazzi di diversa provenienza con il “Mahatma” in momenti diversi della sua storia (“Gandhi”, San Paolo, pp.184, € 16,00). Aver conosciuto Gandhi cambierà la percezione della realtà in cui vivono.

“La vita di ciascuno di noi è fatta di incontri, scrive l’autrice, ad alcuni resistiamo, altri ci cambiano, ma è meglio dire che ci fanno ritrovare noi stessi…”.

Anche il cammino di Mohandas Gandhi era stato tortuoso e lungo dai difficili anni trascorsi a Londra, dove aveva conseguito la laurea in giurisprudenza, secondo il costume dei giovani che provenivano da eminenti famiglie indiane, fino al suo traumatico ritorno in India. Le umiliazioni e gli smacchi professionali che lo attendevano a Bombay, lo convinsero a trasferirsi in Sudafrica per dirimere una causa di un mercante indiano. Qui si sarebbe deciso il suo destino.

Mentre viaggiava verso Pretoria infatti, fu buttato giù dal treno, perché avendo pagato il biglietto insisteva di rimanere in prima classe. Ma in un Paese come quello, dominato da forti pregiudizi di razza e immerso in una realtà di miseria estrema e lotte politiche, non c’era possibilità di scelta. Dunque lui, Gandhi avvocato indiano, era colpevole del colore della sua pelle. Nella desolata sala d’aspetto della stazione di Maritzburg, la piccola capitale del Natal, solo, privo di bagaglio, egli trascorse una gelida notte chiedendosi che cosa dovesse fare. Rassegnarsi alla sopraffazione o lottare per eliminarla? Non ebbe dubbi, il buio si gremì di un’inerme massa di uomini, quelli che gli inglesi chiamavano coolies. Sembrava che si aspettassero qualcosa da lui, l’idea di un compito di interesse collettivo lo folgorò. Una sorta di via di Damasco.

Tornò in India che nella sua immensità era pronta a esprimere la propria legittima indignazione alle ingiuste leggi imposte dal governo inglese. In silenzio i suoi connazionali attendevano un ordine del Mahatma che raccolto in un sereno isolamento meditava sul grave passo da compiere. In modo pacifico, ma non meno dirompente. Mai gli inglesi avrebbero concesso spontaneamente la libertà al suo popolo: occorreva che lui, soltanto lui lo guidasse alla ribellione. Si mise dunque in marcia verso il mare con pochi seguaci. Aveva infatti deciso che il movimento di protesta avrebbe avuto inizio con la violazione delle leggi concernenti la tassa sul sale, una delle più impopolari in India poiché ricadeva soprattutto sui poveri.

L’immagine di questo piccolo uomo ormai anziano che andava completamente disarmato a sfidare un impero, fece fremere l’India e varcò i suoi confini. Folle entusiaste si addensarono al suo passaggio cosicché l’esiguo manipolo si trasformò in breve in una moltitudine.

“Il dominio degli inglesi in India, spiegò il Mahatma giunto alla spiaggia, vi ha portato alla rovina materiale, morale, culturale e spirituale. Sono deciso a distruggerlo…” e a sottolineare le sue parole raccolse una simbolica manciata di deposito salino. Fu il segnale della rivolta, il suo messaggio era stato compreso. La sua esile, bianca figura si arrossò al riverbero degli enormi roghi di stoffe inglesi appiccati ovunque.

Sono passati più di cinquant’anni dalla morte di Gandhi a Delhi. Il riformatore scarno e seminudo che del principio della non violenza aveva fatto la sua forza e la forza del suo popolo, cadde ucciso da tre colpi di rivoltella. Da pochi giorni aveva interrotto un nuovo digiuno, un digiuno per espiare le colpe della sua gente. Ora che finalmente l’indipendenza dell’India era divenuta una realtà, gli antichi rancori che da sempre dividevano i musulmani e gli indù esplosero con ferocia inaudita; in ogni contrada dell’India si uccideva, si seviziava, si compivano atrocità indescrivibili. Perfino chi si rifugiava nei templi e nelle moschee non era risparmiato. La violenza era dunque la legge degli uomini e non l’amore come Gandhi aveva insegnato fin dall’inizio della sua missione?

 

Gandhi in visita nel quartiere Garbatella di Roma nel 1931

A cura di Eugenia Marzocca, psicologa e psicoterapeuta

Non è propriamente un romanzo di divulgazione psicologica, ma le due protagoniste-cugine de “La tredicesima estate” di Gabriella Skoldenberg (Beisler ed., Materie prime, trad. Samanta k. Milton Knowles , pp.209, € 15,90) sono un esempio lampante di quanto avviene quando i genitori, come scrive nella postfazione il pedagogista Marco Dallari, sono incapaci di intrattenere con i propri figli una modalità relazionale adeguata. Tutto ciò viene definito con l’espressione della psicoterapeuta svizzera Alice Miller “Trascuratezza emotiva”, ovvero l’assenza da parte dei genitori di un appropriato, idoneo supporto emozionale ai propri figli.

Nella storia qui raccontata, infatti, non si parla di maltrattamenti e abusi che sono componenti più facilmente individuabili subito, ma di comportamenti meno evidenti ma ai nostri giorni molto diffusi soprattutto nella preadolescenza, determinati in genere da un atteggiamento da parte degli adulti di grande attenzione soprattutto ai bisogni fisiologici e alle richieste materiali dei propri figli. Il risultato si evidenzia spesso nei ragazzi con fenomeni di narcisismo esasperato, incapacità totale di guardare al di là del proprio ombelico, insicurezza estrema con la contro-risposta di ricerca di conferma delle proprie capacità ai limiti del parossismo; senso di onnipotenza con conseguente spericolatezza di prove fisiche a rischio, per esempio andare a velocità eccessiva sia con i motorini che con le automobili senza rispettare le regole stradali, per non parlare di bullismo e spesso di cyberbullismo purtroppo sempre più frequenti e invasivi. A ciò si può aggiungere una volontà esasperata di affermarsi imponendo anche con la violenza non solo verbale il proprio controllo sugli amici e compagni di classe.

Ebbene le due ragazzine descritte con penna veloce e accattivante da Gabriella Skoldenberg rientrano in misura paradigmatica in questa cornice. Lo scenario in cui si svolgono le loro vacanze è la casa del nonno in montagna. Un luogo solare ricco di pendii tranquilli e immoti, di vette scintillanti di muschio e gialle di licheni e fiori selvatici dal profumo acre. Fin da piccole Sandra e Angelica, più o meno coetanee, figlie di due sorelle molto legate fra loro e con legami sentimentali difficili, trascorrono il periodo estivo in questo luogo incantevole e familiare. C’è anche la zia acquisita Ruth, single, di taglia imponente e amante dei dolci, affezionata alle due bambine che ha visto crescere negli anni. Molto diverse di carattere le due cugine si vogliono bene ed hanno un forte legame fra loro. Sandra maggiore di un anno è sempre stata irrequieta e problematica, Angelica, voce narrante del romanzo, è invece tranquilla e riflessiva, ma succube della personalità decisa e prepotente dell’altra.

Fin dalle prime pagine si avverte tuttavia che questa non sarà un’estate come le altre, ma segnerà drammaticamente la transizione da una fase dell’esistenza a un’altra. La fine dell’infanzia per Angelica significherà infatti la sempre più chiara consapevolezza della separazione e differenza emotiva da Sandra. “Qualcosa è di nuovo cambiato in lei. Parla in maniera fredda e controllata…”. Lei stessa ammette: “Ho più controllo adesso. Agli adulti piace. Agli adulti piacciono le bambine ubbidienti. Quelle come te Angelica.” E in ogni modo cercherà di imporsi alla cugina trascinandola in giochi sempre più pericolosi e inquietanti. In continue sfide psicologiche e fisiche segnate da una curiosità morbosa verso il proibito e atti di autolesionismo. In questa sorta di latente duello non ci sono accenti convenzionali, ma una complessa rete psicologica che indica come per crescere occorra in varia misura attraversare esperienze spesso difficili e traumatiche.

di Alessandro Cavalli

Un bambino di 10 anni ha mediamente genitori quarantenni e nonni settantenni. Questo vuol dire che ne i genitori ne i nonni, salvo pochi casi, hanno avuto un’esperienza diretta di che cos’è la guerra, non la possono raccontare. Della guerra, nonni, genitori e nipoti hanno solo un’immagine mediatica, non sono in grado di confrontare la rappresentazione con il racconto di una realtà direttamente vissuta. Che il 90% della popolazione non abbia un’esperienza diretta della guerra è un privilegio di cui solo il nostro pezzo di Europa ha potuto godere.

La guerra entra nelle nostre case attraverso le immagini. Non possiamo (come genitori e come educatori) schermare i bambini da questa realtà, ancora piuttosto remota, ma appena a poche ore di viaggio. I bambini leggeranno la realtà della guerra dalle immagini, ma soprattutto dalle emozioni che quelle immagini suscitano negli adulti che li circondano. Prima di tutto, non dovremo far finta di niente, fare come se le immagini rappresentassero un realtà virtuale. Non dobbiamo fare gli indifferenti, come se si trattasse di un war game qualsiasi. Dobbiamo comunicare le nostre emozioni. Certo, con la dovuta cautela, ma senza nascondere i nostri sentimenti e i nostri pensieri. Non va bene lasciare i bambini soli davanti alle immagini della violenza della guerra. Preoccupazione sì, panico no.

Dobbiamo parlarne. Riconoscere la realtà del conflitto tra stati e che la guerra non è l’unico modo per risolvere i conflitti, che ci possono essere vinti e vincitori, ma anche tutti perdenti. Può essere l’occasione per iniziare un processo di riflessione sulla violenza, anche quella tra pari (di cui i bambini hanno comunque esperienza diretta), quella in famiglia, quella tra bande rivali, tra gruppi con interessi in conflitto e i modi in cui i conflitti possono essere regolati e la violenza può essere controllata e neutralizzata.

Poi, fra poco, incominceranno ad arrivare a migliaia i profughi, quelli sì avranno qualcosa da raccontare, la distruzione, la paura, la fuga. Sarà un’occasione per un confronto diretto con la realtà della guerra, per connettere immagini mediatiche e racconti di esperienze vere. Sarà anche un’occasione per concretizzare la solidarietà con le vittime, per convincersi e convincere che ognuno può fare qualcosa per alleviare le sofferenze di coloro che la guerra l’hanno vista coi loro occhi.

Insomma, la cosa da non fare, come genitori e come educatori (compresi, ovviamente, gli insegnanti) è non lasciare i bambini soli ad elaborare l’impatto con la realtà della guerra. Prima di chiederci come i bambini reagiscono alle immagini della guerra, dovremmo chiederci come reagiamo noi e come trasmettiamo ed elaboriamo le nostre reazioni.

(testo tratto dalla Newsletter del circolo Pertini di Genova)