È USCITO SCUOLA DEMOCRATICA n. 2/203

Indice del numero 2/2023, maggio-agosto

ISBN: 978-88-15-38597-0  Annata: XIV RDF

Saggi

Diego Mesa
Il parental involvement in chiave interculturale. Un confronto europeo sul rapporto tra famiglie immigrate e scuola
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 241-260DOI: 10.12828/107959

Vincenzo Albanese
Il registro elettronico. Usi nelle pratiche scolastiche
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 261-280DOI: 10.12828/107960

Enrico Maria Piras Cristina Calvi Ludovica Rubini
Rendere visibile il cyberbullismo. La Roleplaying Simulation Online come metodo per studiare le interazioni prevaricanti in rete
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 281-300DOI: 10.12828/107961

Nicola Nasi
Children’s Peer Conflict Mediation in the L2 Classroom. A Pedagogical Perspective
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 301-322DOI: 10.12828/107962

Simone Busetti Cristina Vasilescu Giancarlo Vecchi
Didattica interattiva e giochi educativi digitali. P-Cube: insegnare la complessità delle decisioni pubbliche nelle democrazie contemporanee
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 323-342DOI: 10.12828/107963

Note E Punti Di Vista

Antonella Polimeni
L’università verso la Quarta missione
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 343-346DOI: 10.12828/107964

Stefano Boffo Francesco Gagliardi Tiziana Guzzo
L’innovazione nelle PMI. Un nuovo spazio per la Terza missione dell’università
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 347-356DOI: 10.12828/107965

Carla Facchini Carlo Pennisi
La ricerca sociologica di fronte alla pandemia. Temi, metodi e reti di collaborazione
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 357-372DOI: 10.12828/107966

Recensioni

Oscar Ricci
Druisan, M., Magaudda, P. e Scarcelli, C.M. (2022), Young People and the Smartphone. Everyday Life on the Small Screen
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 373-374DOI: 10.12828/107967

Geraldina Roberti
Lazzarini, G., Bollani, L., Caizzo, E. e Forte, A. (2022), Prima di diventare invisibili. Prevenire a scuola il fenomeno dei NEET
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 375-377DOI: 10.12828/107968

Antonietta De Feo
Biesta, G.J.J. (2022), Riscoprire l’insegnamento
SCUOLA DEMOCRATICA2/2023pp: 378-380DOI: 10.12828/107969
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Scuola democratica Learning for Democracy
Archivio fascicoli

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

“L’inaspettata eredità della famiglia Bukowski” dello scrittore tedesco Will Gmehling (La Nuova Frontiera, trad. Angela Ricci, pp. 188, € 16,50) è un romanzo che rende l’idea dell’importanza della famiglia, del forte legame che unisce tre fratelli, una bambina e due maschi; la descrizione della vita quotidiana di una famiglia come tante con molte ristrettezze economiche, che abita una casa troppo piccola per cinque persone dove quindi è più facile scontrarsi e litigare. Sono gli stessi personaggi che già abbiamo conosciuto nel primo romanzo, “La straordinaria estate della famiglia Bukowski”, pubblicato dalla stessa casa editrice e vincitore del Deutscher Jugendliteraturpreis.

Cosa hanno di straordinario i Bukowski? Si riconoscono fra migliaia di persone perché il loro è un legame saldo, vero: sono l’effige, la testimonianza di un fulcro vitale che esiste al di là dello scorrere a volte monotono di giornate che si susseguono una dopo l’altra, una uguale all’altra, ma c’è sempre qualcosa di impercettibilmente diverso, una frase, una parola che non scalfisce il fondamento della loro unità familiare.

Ricordano quello che ha scritto Borges sulla vita, “non sai se ha senso. In certi momenti il senso non conta. Contano i legami.” La disponibilità d’amore, la forza dei sentimenti che può a volte superare i preconcetti del pensare comune, compresi gli schemi della famiglia tradizionale. Il fatto curioso è che la famiglia Bukowski è una famiglia normale, come ce ne sono tante, malgrado i nostri tempi, malgrado il conformismo dilagante che porta altrove e dove tutto può più o meno convivere.

Alf, Katinga e Robbie: i tre fratelli sono dei piccoli eroi, il loro vocabolario è quello dei nostri giorni, momenti di gioia e di tensione sempre stemperati da genitori intelligenti, nel senso che comprendono e amano i loro figli e desiderano il loro bene. Robbie il più piccolo è diverso dagli altri, un po’ lunatico e interessato alle stelle, del resto meglio alzare gli occhi verso il cielo che guardare a terra. Katinga è un fenomeno di determinazione e vivacità. Studia francese e ad appena nove anni sa già che vuole diventare una famosa stilista. Alf è l’io narrante, il fratello maggiore appena adolescente e già innamorato. “Andavo volontariamente a farmi prendere a calci e pugni, inventavo poesie e fissavo il fiume. Essere diversi è normale, ho pensato mentre mi lavavo i denti in bagno. Devi essere per forza diverso, altrimenti la vita non potrà regalarti nulla.”

Stavolta la routine quotidiana sarà rallegrata da un fatto eclatante, straordinario, quasi un miracolo perché è vero che ricevere un’inattesa, imprevedibile eredità cambierà la loro vita e quella dei loro genitori e parenti e li renderà più sereni e fiduciosi del domani.

Dopo anni la formazione professionale continua sembra essere al centro dell’attenzione dei decisori in Italia. Sta attraversando una stagione di trasformazioni, anche per l’avvio di una serie di nuove misure di policy, da ultimo quelle inserite nel Piano Nazionale Nuove Competenze e nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tuttavia restano irrisolte molte questioni: l’equità di accesso alla formazione aziendale; i divari delle aree Nord-Sud nella distribuzione dell’offerta formativa; la resistenza al cambiamento e alla modifica dei modelli e delle pratiche organizzative; gli effetti della pandemia sulle scelte e strategie formative aziendali.

 

Indice del numero 1/2023, gennaio-aprile

ISBN: 978-88-15-38596-3

Annata: XIV
RDF

Saggi

Roberto Angotti Giovanna Campanella Alberto Vergani
La formazione continua in Italia, tra questioni irrisolte e nuovi scenari d’intervento

pp: 5-16DOI: 10.12828/107181


Giuditta Alessandrini Valerio Massimo Marcone
Dal contrasto alla fragilità del capitale umano del paese alla focalizzazione su nuove policy di formazione continua. La sfida del PNRR
pp: 17-34DOI: 10.12828/107182

Gabriele Ballarino Stefano Cantalini
La formazione continua dei lavoratori in Italia. Il caso dei Fondi interprofessionali nell’area metropolitana milanese
pp: 35-56DOI: 10.12828/107183

Andrea Cegolon
Strengthening the Italian Continuing Vocational Education and Training System through Lifelong Learning Culture
pp: 57-76DOI: 10.12828/107184

Massimiliano Costa
Nuovi modelli eutagogici per la formazione continua. Il diritto soggettivo alla formazione e lo sviluppo dell’agency capacitante per la transizione digitale
pp: 77-92DOI: 10.12828/107185

Luca Dordit
L’universo della formazione continua in Italia tra complessità irriducibile e sistema integrato
pp: 93-112DOI: 10.12828/107186

Andrea Galimberti
La formazione continua come variabile strategica per colmare lo skill gap? Riflessioni a partire dal dottorato di ricerca
pp: 113-130DOI: 10.12828/107187

Note E Punti Di Vista

Giovanni Galvan
Ripensare il ruolo dei Fondi interprofessionali nella formazione continua
pp: 131-136DOI: 10.12828/107188

Giorgio Neglia
L’investimento in formazione continua. Il ruolo dei Fondi paritetici interprofessionali
pp: 137-144DOI: 10.12828/107189

Leonello Tronti
Diritto alla conoscenza e partecipazione cognitiva. Dalla formazione continua alla comunità di conoscenza
pp: 145-156DOI: 10.12828/107190

Emanuela Proietti
La formazione continua in Italia alle prese con la certificazione delle competenze
pp: 157-166DOI: 10.12828/107191

Out Of Issue

Orazio Giancola Adamo Lo Cicero Federica Rizzi
Le mappe delle scelte educative. Una tecnica di raccolta dei dati e le sue implicazioni di analisi
pp: 167-192DOI: 10.12828/107192

Silvia Carbone
La costruzione della partecipazione dei genitori nelle strutture scolastiche dell’infanzia
pp: 193-210DOI: 10.12828/107193

Emanuele Toscano Antonella Verduci
Pandemia e politiche scolastiche. Il caso italiano dei ‘docenti COVID’
pp: 211-228DOI: 10.12828/107194

Rassegna

Giorgio Allulli
Cinquant’anni di politiche scolastiche sotto la lente di Orazio Niceforo
pp: 229-232DOI: 10.12828/107195

Recensioni

Gabriele Pinna
Kergoat, P. (2022), De l’indocilité des jeunesses populaires. Apprenti·e·s et élèves de lycées professionnels
pp: 233-234DOI: 10.12828/107196

Marco Romito
Caroselli, A. (2022), Palestre di precarietà. Una etnografia delle pratiche conflittuali nella formazione tecnica e professionale
pp: 235-237DOI: 10.12828/107197

A cura di Eugenia Marzocca psicologa, psicoterapeuta, ippoterapeuta

Il romanzo di Catherine Fradier “Dacca Toxic – Cronache lunari di un ragazzo bizzarro” (Uovonero, trad. Sante Bandirali e Ilaria Piperno, pp. 169, € 15,00) per la ricchezza di temi e atmosfere rende perfettamente fatti terribili e spaventosi per uomini e animali che connotano la realtà quotidiana di una città come Dacca, la capitale del Bangladesh, “la città più inquinata del mondo”. E tutto ciò è raccontato da un ragazzino autistico. “Un autistico di livello 1”. Che cosa significhi è ben noto ai nostri giorni anche se le interpretazioni degli psicologi sono varie e il merito è anche di libri come questo. L’autismo non sempre implica deficit di intelligenza, né ritardo nel linguaggio. Nel caso del nostro protagonista Sacha Sourieau è molto intelligente, bravissimo a matematica, ma ha seri problemi quando deve comunicare con gli altri, soprattutto coetanei; non riesce a interpretare in forma immediata le consuetudini sociali e soprattutto non sa controllare le proprie emozioni. Altra caratteristica è l’inclinazione a interessarsi in modo esclusivo a temi precisi, molto specifici e a volte complessi e importanti con un atteggiamento quasi ossessivo che esclude ogni altro campo di conoscenza che richieda attenzione. Ma torniamo al romanzo. Sacha è a Dacca perché la sua mamma è la dottoressa Sourieau impegnata come medico per una ONG. Qui incontra una ragazzina di nome Sultana che lavora con turni massacranti e in condizioni disumane in una conceria che non avendo nessuna protezione sia per adulti che per ragazzi, ha perso un occhio. Nessuno degli operai che lavorano in questa struttura indossa una maschera e sguazzando la maggior parte a piedi e mani nude in pozzanghere di acido corrosivo che toglie il respiro e ferisce la pelle. “A Hazaribagh la vita media non arriva a cinquant’anni.” Il fratello di Sultana più grande di lei, Dilip, è dipendente di un macello dove anche qui viene violata costantemente la legge con l’appoggio della classe politica. In Bangladesh i bambini possono lavorare per cinque ore al giorno, in realtà lavorano almeno dodici ore al giorno sette giorni alla settimana. Dilip vorrebbe rivolgersi al Sindacato dei conciapelli portando una serie di prove perché risarciscano la sorella, ma lo polizia vuole farlo tacere. Sacha sarà suo malgrado coinvolto in una estenuante e pericolosa fuga per aiutare l’amico, attraverso luoghi dove anche gli stessi animali da macello, le vacche in questo caso, sono torturate prima di essere “decapitate, eviscerate, squartate”. Il nostro protagonista rimarrà sconvolto da tanta crudeltà ma anziché cedere, tirerà fuori tutto il suo coraggio per salvarsi insieme a Dilip e denunciare l’accaduto ricorrendo al suo intuito particolare e alle sue indubbie doti intellettive.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

Nel libro di poesie di Ruggero Marino, colpisce ciò che spiega Giuseppe Carrisi nella Prefazione: «Certo l’Italia non è il Messico, il Paese dei femminicidi per eccellenza. Oltre tremila la media delle donne uccise in un anno, in un mix di criminalità e cultura machista. Ma anche noi stiamo vivendo un’emergenza sociale senza precedenti. Lo dicono i numeri. Freddi, impressionanti, che però fotografano una realtà inconfutabile. Un dato, in particolare, colpisce più degli altri: nel 2022, ogni tre giorni circa è stata uccisa una donna. E i conti sono presto fatti. Cambiano i luoghi, cambiano i pretesti, cambia l’età delle vittime e dei carnefici. La violenza assassina è sempre la stessa». Il tema della violenza investe in pieno anche gli uomini. Tanti sono gli interrogativi senza risposta, è una pretesa impossibile pretendere spiegazioni univoche. Si dovrebbe partire dall’origine della vita: è nata da una casuale sequenza di fatti inverosimili, o c’era all’inizio un disegno preciso? Perché ci sono due sessi? Si può distinguere fra il principio maschile e quello femminile? L’attuale e giusta tendenza all’uguaglianza dei diritti si scontra con una verità che non è soltanto storico-sociale. C’è un personaggio in un racconto di Karen Blixen che dice, a proposito dell’emancipazione femminile: «Per un certo periodo di tempo Adamo poté vagabondare a suo piacimento su una terra nuova e serena, tra gli animali, nel pieno possesso dell’anima sua… ma la povera Eva trovò l’uomo già insediato sulla terra con tutte le pretese su di lei sin dal primo momento in cui vi pose piede…». Le pretese si sono attenuate, forse, ma se diamo la caccia al tempo passato «dobbiamo accontentarci di acchiapparlo per la coda e alla rovescia».

All’inizio del movimento femminista parecchie giovani donne, le più intelligenti e geniali, uscirono dalla penombra di millenni per vivere libere, per recuperare il tempo in cui erano state in qualche modo prigioniere. Avevano fretta di assaporare fino in fondo i doni della vita. La propria esistenza sembrava a ognuna più importante di qualsiasi altra cosa. Destinate per tradizione a rimanere ferme, scoprirono per vari motivi l’avventura, la ricerca, cioè un altro modo di essere se stesse. E proprio il viaggio fu uno dei banchi di prova della libertà, perché anche se si rimaneva chiusi in una stanza come Emily Dickinson, c’era sempre uno spostamento, cosicché nessuna che attraversasse la poesia, o l’amore o la ribellione ritornava mai uguale a prima. Nell’area occidentale il femminismo si è affermato da tempo, le donne sono entrate nelle roccaforti del potere, della scienza, della legge. «Come gli Achei a Troia, si sono introdotte dentro le mura nascoste nel ventre di un cavallo di legno», possono ora procedere a fronte scoperta, abbandonando i travestimenti usati per imitare le professioni virili. Nonostante questo, spesso sono ancora schiave dell’armamentario psicologico e mentale degli uomini, della deformante influenza dell’altro sesso.

Le poesie di Ruggero Marino hanno il merito di riportare l’attenzione proprio su questo. Come lui stesso spiega: «Nel nuovo secolo la brutalità non si arresta, anzi. E il virus, reclusi nelle case, ha moltiplicato gli agguati. Questa è la realtà di cui i versi si fanno portatori per scuotere le coscienze, con un pugno allo stomaco per chi legge… Sperando che almeno la poesia possa toccare gli animi. Un’opera dedicata alle donne, ma che andrebbe letta soprattutto dagli uomini». Un incoraggiamento a parlare senza nessun timore dell’essere umano femminile, a riconoscere la validità dell’elemento proprio della donna nel suo desiderio e nella sua volontà di scegliere se agire come persona insieme all’uomo. È la diversità che favorisce l’intesa e stimola l’ispirazione fondamentale per lo sviluppo e l’arricchimento di ognuno, uomo e donna che sia. Riconoscerla con rispetto aiuterà a riscrivere le storie interiori, forse a celebrare la rinascita di un nuovo umanesimo.

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

E’ difficile oggi immaginare l’impressione terrorizzante che provocarono gli Unni, i barbari guidati dal leggendario Attila, ai confini di quello che era ancora l’impero romano. Il romanzo di Davide Morosinotto, “Il Figlio del Mare – La saga dei Da Mar” (Mondadori, ill. Lucrezia Bugané, pp. 368, € 17,00), è ambientato proprio in quel momento, precisamente nell’anno 452 dopo Cristo. Siamo ai prodromi del medioevo. Come spiega l’autore nell’introduzione le persone dell’epoca si sentivano romani, le loro case erano le “domus” e i soldati i legionari. Poi arrivarono i barbari, i veri protagonisti di questo romanzo, che racconta quel pezzo di storia in modo accattivante attraverso le avventurose, drammatiche vicende di un ragazzo quattordicenne, Pietro, che viveva senza farsi tante domande in una fattoria occupandosi di maiali al servizio del prepotente signore di Ateste, oggi Este. Scrive l’autore che lo scenario di questo è il luogo dove è nato e cresciuto, uno scenario completamente mutato, ma ci sono ancora Padova (Patavium), Milano (Mediolanum), milleseicento anni fa più importante di Roma, e Ravenna che allora era la capitale dell’impero di Occidente. E la laguna di Venezia su cui da una miriade di isole ravvicinate sorse la più suggestiva e fantastica città del mondo.

I disegni incorniciati come arazzi accompagnano la storia di Pietro e Giustina, la nobile figlia del “Clarissimo”, il suo padrone, che per una serie di casuali eventi diventa la sua compagna di viaggio e poi chissà. Sono illustrazioni che rappresentano ciò che avviene tra un capitolo e l’altro aiutando a capire meglio la vita quotidiana di quei tempi lontani e in gran parte sconosciuti.

Anzitutto la descrizione di Pietro: “a quattordici anni sembrava già un mezzo gigante con spalle larghe, capelli rossi e la pelle chiara, che si scottava sempre, tanto che ogni sera la mamma doveva spalmargli la schiena con un intruglio fatto di grasso ed erbe.” Mentre si trova nella casa del suo signore con un maialino ancora vivo in spalla da fare arrosto, giunge il messaggero con la ferale notizia dell’invasione dell’esercito degli Unni. Occorre difendersi, il ragazzo deve mettersi in cammino per affrontare con gli altri i terribili nemici che cavalcano armati fino ai denti su selle che li rendono invincibili. Grande sarà lo stupore di Pietro quando viene a sapere dalla mamma che è figlio di un barbaro e non dell’attuale marito della donna, con il quale c’era sempre stato un pessimo rapporto. E’ l’inizio per il giovane di una grande avventura che lo porta a conoscere meglio il suo carattere e a prendere coscienza delle sue potenzialità, non solo fisiche essendo forte come un toro ma anche intellettuali. Si accorge di possedere un carattere forte e spregiudicato pronto ad affrontare imprevisti e difficoltà inimmaginabili. Già da tempo del grandioso passato dell’impero romano erano rimaste poche tracce e soprattutto una sorta di lento disfacimento che rendeva i romani più confusi di quei guerrieri pronti a tutto pur di vincere, assetati di terre e ricchezze.

Il lettore viene quindi immerso in un’epoca così remota da sembrare una favola oscura, ma costellata di fatti, uccisioni, battaglie accadute realmente. La lotta per il Potere con la P maiuscola si pone in tutta la sua evidenza allora come oggi. Quando mai l’umanità ha imparato qualcosa dagli eventi passati? Gli uomini non hanno memoria o non vogliono ricordare perciò in un vortice inarrestabile la storia prosegue il suo corso.

Anna Maria Ajello

·         Una vita per l’educazione a scuola e fuori. In memoria di Clotilde Pontecorvo

  • pp. 413-416, DOI: 10.12828/106009

 

saggi

  • Martina Colicchio, Valentina Mancini, Vincenzo Nesi, Riccardo Paramatti
  • pp. 417-441, DOI: 10.12828/106010

·         Un’analisi con sette indicatori socioeconomici per laureate e laureati triennali

  • Silvia Dell’Anna, Dario Ianes, Giulia Tarini
  • pp. 443-461, DOI: 10.12828/106011

·         Dalla dialettica universale-particolare verso una didattica plurale. Visioni, approcci e strategie per una scuola di tutti e di ciascuno

  • Domenico Carbone, Enrico Gargiulo
  • pp. 463-483, DOI: 10.12828/106012

·         Un reclutamento ‘stratificato’. I docenti italiani tra mobilità territoriale e di carriera

  • Francesco Seghezzi
  • pp. 485-506, DOI: 10.12828/106013

·         I giovani italiani tra mercato e non-mercato. Esperienze e competenze all’interno delle transizioni occupazionali

  • Nadia Crescenzo
  • pp. 507-526, DOI: 10.12828/106014

·         The Education/Learning Dilemma. The Non-Formal Dimension in European Youth Policy

  • Andrea Casavecchia
  • pp. 527-547, DOI: 10.12828/106015

·         Youth Participatory Cultures in Italy. Before and After Lockdown

 

Che fare per l’istruzione e la formazione nella prossima legislatura?

  • Luciano Benadusi, Vittorio Campione
  • pp. 549-550, DOI: 10.12828/106016

·         Che fare per l’istruzione e la formazione nella prossima legislatura?

  • Luciano Benadusi,Vittorio Campione
  • pp. 551-560, DOI: 10.12828/106017

·         Parliamo di scuola

  • Roberto Moscati
  • pp. 561-569, DOI: 10.12828/106018

·         Parliamo di università

  • Fiorella Farinelli
  • pp. 571-579, DOI: 10.12828/106019

·         Parliamo d’istruzione e formazione tecnica e professionale</

a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

Dal titolo si comprende tutto: Francesca Mannocchi con il suo ultimo libro squarcia il ristretto orizzonte in cui viviamo per aprirci al mondo. “Lo sguardo oltre il confine – Dall’Ucraina all’Afghanistan, i conflitti di oggi raccontati ai ragazzi” (De Agostini, pp.224, € 13,90), è un libro che descrive uno scenario inquietante, basato su una testimonianza diretta sugli avvenimenti e scontri che caratterizzano buona parte del nostro pianeta.

Libano, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina. I conflitti di oggi ai confini con l’Europa non si contano e sono terribili, perché sovente caratterizzati da guerre fra gruppi di persone che fanno parte della stessa popolazione. Niente di più violento perché se la guerra è sempre l’estrema ratio, la lotta armata fra persone affini la rende ancora più atroce perché senza via di uscita.

Non è un caso che nella Bibbia la storia dell’uomo inizi con un duello mortale fra due fratelli e che molta strada sia stata fatta da quell’episodio violento, divenuto leggendario. La demitizzazione del male è avvenuta in tempi recenti, ma se l’uomo moderno ha cercato la verità che si celava sotto il velo del mito, la rappresentazione del male è espressione di una potenza antica le cui ragioni sfuggono alla comprensione razionale. Ugualmente la guerra, dimensione in cui dominano le tenebre e vagano ombre livide; i conflitti sanguinosi che caratterizzano la storia dell’uomo dalle origini, scavano un abisso nel quale sprofondano in silenzio, senza lasciare traccia sentimenti e valori. In guerra l’uomo si trasforma “in un essere spaventoso e oscuro”. “E’ su quell’essere spaventoso e oscuro che siamo chiamati a interrogarci”, scrive l’autrice. Quando comincia una guerra, negli esseri umani si risvegliano gli istinti più feroci, e vincitori e vinti si perdono nel miserando caos del mondo. Basta leggere “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Herich Maria Remarque per capire l’assurdità e l’iniquità della guerra.

Con grande efficacia e introducendo parti di storia e cronologia dei vari eventi, la Mannocchi descrive la guerra civile libanese (1975 -1990) fra le Forze libanesi cristiano-maronite e il Movimento nazionale appoggiato dall’OLP ( Organizzazione per la liberazione della Palestina). Costò 150.000 vite e 300.000 feriti , più l’emigrazione di quasi un milione di persone. Beirut era ritenuta la Parigi del Medio Oriente, percorsa dal vento del deserto e dal profumo dei fiori di limoni e di mare. Oggi è una città semi-distrutta, in cui prevale un sentore di morte, di polvere, di spazzatura, di rovine e di antichi massacri da entrambi le parti in lotta, che sedimentano odio e divisione.

Sciiti e Sunniti: un contrasto in medio oriente che sembra senza vie di uscita. Così l’Afghanistan e la sua storia martoriata, divenuto un Paese dopo vent’anni di guerra, desolato, dove ci sono decine di migliaia di persone che vivono in povertà, bambini malnutriti, giovani senza futuro e per le donne proibizione di andare a scuola e di uscire di casa. La storia dell’Iraq non è molto diversa: dal 2003, l’anno dell’invasione statunitense, la maggioranza degli studenti “hanno ricordi costruiti sulla guerra, la disperazione e le atrocità”. In quanto alla Libia l’autrice racconta con dovizia di particolari la fine del regime autoritario di Gheddafi e il disordine successivo, determinato dai gruppi armati che dopo la “rivoluzione” hanno preso sempre più potere nel territorio combattendo tra loro senza esclusione di colpi. L’amico Husen le dice: “Prima avevamo un rais, dopo la sua morte siamo rimasti a fare i conti con tanti piccoli Gheddafi.”

La Siria, altro Paese dilaniato da un conflitto civile non ancora risolto, dove sono stati uccisi circa 40.000 oppositori al regime di Bashar al-Assad. Per finire l’Ucraina che ha subito l’invasione russa e dove la guerra è ancora in corso. Adulti e ragazzi vogliono difendere la propria terra, i propri diritti.

di Luciano Benadusi e Orazio Giancola

(l’articolo è stato pubblicato anche da Tuttoscuola.com )

Il primo gesto compiuto dal nuovo governo sulla scuola è stato il cambiamento del nome del Ministero dell’Istruzione aggiungendovi “e del Merito”. Una scelta chiaramente identitaria e assai criticata per varie ragioni, alcune buone altre meno. Portare il discorso politico in materia di educazione sui valori e sui principi è una scelta giusta perché qui entra in gioco più di quanto avvenga per altre tematiche la dimensione valoriale, di solito invece trascurata. Non fosse che in questo caso la scelta è stata effettuata in modo monistico evocando un unico valore di riferimento, per l’appunto il merito. Già un secolo fa Weber aveva notato come nelle società contemporanee si era verificato un passaggio di grande rilievo storico: dal “monoteismo” al “politeismo” dei valori. Sembra invece che nel cielo della scuola di Valditara il merito sia l’unica stella a brillare, o almeno la più luminosa tanto da poter essere indicata come parte per il tutto. Senza tenere conto che merito e meritocrazia sono a loro volta concetti plurali, dato che presentano una grande varietà di significati e di declinazioni. Nel nostro libro intitolato Equità e merito (2022) avevamo impiegato il termine equità in una prospettiva pluralistica, per designare una gamma di principi-valori che hanno ai suoi poli l’eguaglianza e il merito. Principi che possono anche essere combinati e il cui ordine di priorità variare caso per caso.

Citare solo il merito significa relegare in secondo piano l’eguaglianza e fornire così una giustificazione più ampia alle diseguaglianze. Il contrario della nostra costituzione che include l’eguaglianza tra i principi generali (art.3) mentre parla del merito molto più avanti in una norma specifica sull’istruzione (l’art. 34), e solo nell’accezione di eguaglianza delle opportunità (in breve EO), ossia della declinazione egualitaria del principio del merito. A dimostrazione della maggiore importanza ed estensione attribuite al principio egualitario rispetto a quello meritocratico. Nelle argomentazioni a favore della ridenominazione che lo stesso ministro e altri commentatori hanno portato la priorità è capovolta: il merito diventa un principio generale e l’eguaglianza si esaurisce per intero nella sua versione meritocratica perché considerata risolutiva: “Il talento è un dono: premiandolo si sconfigge il classismo” (Ricolfi, La Repubblica, 27 ottobre, 2022).

Nei fatti la questione è molto più complessa, vediamo perché. Eguaglianza delle opportunità significa concepire la scuola come l’arena di una serie di gare per il successo, basate sul talento e sull’impegno dei partecipanti – così Rawls, il maggiore filosofo della giustizia contemporaneo, e così anche il sociologo Young, l’inventore del termine meritocrazia – ma senza alcuna influenza dell’origine socio-familiare degli studenti. Senza avere parificato i punti di partenza il risultato della gara sarebbe falsato e iniquo. Abbiamo così distinto una “meritocrazia pura” da una “meritocrazia spuria”. Le ricerche empiriche ci narrano però che non esiste paese al mondo ove l’influenza delle origini sociali sia stata davvero azzerata; la “meritocrazia reale” rimane sempre (più o meno) spuria. Perché? Dipende solo dal lassismo dei sistemi scolastici che non sollecitano abbastanza l’impegno degli studenti tramite premi e sanzioni? Ma la didattica meritocratica del bastone e della carota ci regalerebbe davvero le pari opportunità? Ne dubitiamo perché, come ci mostrano molte ricerche, l’origine socio-familiare degli studenti (mediamente) non influisce solo sui risultati ma anche sull’impegno, cioè sulla motivazione a studiare e prolungare gli studi fino ai livelli più alti dell’istruzione. E le borse di studio non bastano da sole a cambiare la struttura delle motivazioni. Nemmeno il talento è immune dall’influenza dell’origine sociale. La paura della mobilità sociale discendente delle classi superiori conta di più delle aspirazioni ad una mobilità ascendente a medio-lungo raggio delle classi inferiori (anche in ragione del calcolo del rischio di insuccesso). Inoltre, non mancano evidenze empiriche che la distribuzione genetica dei talenti non sia affatto casuale, diversamente da ciò che asserisce Ricolfi. Ad esempio, una recente ricerca inglese (Crapohi, PNAS, n.14, 2022) ha rilevato quanto il successo scolastico degli studenti (all’esame GCSE) riflette in modo considerevole l’intelligenza (misurata tramite opportuni test) e alcuni tratti della personalità dei genitori. D’altra parte, per avere una misura del talento e delle disposizioni dell’individuo al netto dell’influsso dell’ambiente sociale (i genotipi) occorrerebbe ottenerla alla nascita (se non addirittura prima), cosa impossibile. Infine, Rawls, pur avendo inserito la EO tra le sue fondamentali regole di giustizia, aveva riconosciuto in essa altri due difetti sostanziali. 1) Alla luce del principio di responsabilità, l’ereditarietà genetica del talento non è meno immeritata dell’ereditarietà sociale. 2) L’EO è una meta conseguibile solo in misura parziale. Per realizzarla fino in fondo occorrerebbe infatti ledere il diritto dei genitori di assicurare ai figli il massimo delle opportunità educative e sociali. Tanto è vero che Platone, l’inventore tutt’altro che liberale della EO, proponeva di sottrarli precocemente al loro controllo e affidarli alle cure della repubblica. Consapevole di tali limiti, alla EO, definita “eguaglianza liberale delle opportunità”, Rawls ne aveva affiancata un’altra, definita “democratica”, basata sulla redistribuzione dei redditi e della ricchezza a vantaggio degli svantaggiati. Che significa premiare sì il merito ma non come fonte di un diritto morale dell’individuo bensì come un incentivo ad impegnarsi per la crescita e il benessere della società in modo che tutti ne godano i frutti, a cominciare dai più deboli. Un indirizzo impraticabile in una società meritocratica iper-competitiva dove la stessa scuola funziona come una Olimpiade individualistica del merito, premia i vincitori e si disinteressa dei perdenti o peggio li esclude. Per converso occorrerebbe assecondare lo sviluppo di habitus comunitari, cooperativi e solidaristici.

Concludendo, non condividiamo la riduzione del principio di eguaglianza alla sola EO, la sua versione meritocratica. Ma nemmeno il rifiuto aprioristico del principio del merito, che andrebbe al contrario alimentato per combattere privilegi, pregiudizi e inefficienze presenti anche nel mondo scolastico. Nel nostro libro oltre che ribadire l’importanza della EO in entrambe le declinazioni di Rawls, abbiamo caldeggiato altre due nozioni dell’eguaglianza nella scuola: quella “dei risultati fondamentali in funzione della inclusione” (la soglia minima della carriera scolastica degli studenti e dell’apprendimento delle competenze di base) e quella della “eguale dignità” (principio del rispetto).

Eguaglianza e merito non sono sempre inconciliabili, dipende dai contesti. Per parlare non più di studenti bensì di insegnanti, ispirandoci al criterio del merito come incentivazione ha senso strutturare una carriera di tipo selettivo premiando chi ha acquisito maggiori competenze e può esercitare in modo efficace ruoli più complessi, ad esempio insegnare nelle scuole “difficili” dove si decide la lotta contro la povertà educativa e i divari sociali e territoriali. Definire perciò un preciso ed univoco percorso di formazione, ingresso e avanzamento in questa fondamentale carriera professionale. Ma nel contempo, ispirandoci al criterio dell’eguaglianza si rende necessario innalzare gradualmente le retribuzioni dell’intera categoria per portarle ai livelli degli altri grandi paesi europei.

 

Un caro saluto
pietro valentini

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a cura di Paola Benadusi Marzocca (esperta di letteratura giovanile per ragazzi)

“Non hai mai visto le farfalle rosse, gialle e bianche? Sembrano quasi dei fiori e lo sono anche state, ma poi hanno spiccato un gran salto, si sono staccate dal gambo, hanno agitato i petali come fossero piccole ali e sono volate via.” Per Andersen i fiori rileggendo “I fiori della piccola Ida”, ballano, amano e sanno anche volare, e non è una fantasia. Si sa nelle fiabe può accadere di tutto, ma a leggere il libro di Stefano Roccio, biologo e illustratore, “La natura non ha Copyright ” (Trasversale Beisler, pp.111, € 19,00), l’universo naturale che ci circonda supera di gran lunga ogni immaginazione. L’autore descrive infatti un excursus avvincente sui meccanismi che regolano la natura e la ricerca dell’uomo fin dall’antichità per cercare in essi chiarimenti e soluzioni alle esigenze e ai bisogni dei nostri tempi.

Facciamo un esempio. Scrive il biologo: “I ragni godono di una pessima fama per la loro reputazione di killer velenosi che film e documentari hanno contribuito a creare. In realtà, dando la caccia a fastidiosi insetti, questi animali non solo sono nostri alleati, ma anche incredibili costruttori. La seta che producono e utilizzano per costruire le ragnatele si appresta a diventare uno dei materiali del futuro.”

Sapevate che gli squali, tra i predatori più temibili dei nostri mari, hanno contribuito a scoprire attraverso i loro “denticoli termici” come produrre una superficie sintetica che imitando la trama della pelle dello squalo impedisce “ai microbi di colonizzarsi e moltiplicarsi.”? Non si contano gli animali indispensabili alla nostra sopravvivenza tra cui le api. Non solo per i loro comportamenti sociali che si ritrovano anche nelle formiche e nelle termiti, ma per il loro efficiente metodo di comunicazione che potrebbe tornare utile all’uomo per usufruire al meglio di apparecchi elettronici e di elettrodomestici.

La Biomimesi, ovvero la disciplina che studia le scoperte ispirate dall’osservazione della natura, ha radici antiche che risalgono alla preistoria se è vero che l’essere umano era immerso nel mondo naturale e cercava in esso soluzioni ai suoi problemi. E’ un termine che è stato coniato abbastanza recentemente negli anni Cinquanta dal fisico e inventore americano Otto Schimtt. Tuttavia, scrive l’autore,”Le meraviglie della Terra hanno sempre catturato la nostra immaginazione e sono rappresentate in racconti popolari, leggende e opere d’arte in tutte le epoche e civiltà. Un esempio è il mito di Dedalo e Icaro…”. Ma il più grande antesignano della Biomimesi è stato Leonardo da Vinci, “un uomo in anticipo sui tempi e un acuto osservatore; lo dimostrano le sue annotazioni e i suoi schizzi di “macchine volanti” che imitavano l’anatomia e la tecnica di volo di uccelli e pipistrelli.”

La vita moderna ha allontanato gli uomini dai lenti processi della natura, oggi infatti sempre meno sono in grado di stabilire un rapporto contemplativo con il mondo naturale, anche se ne hanno un bisogno organico insostituibile. L’ecologia ha portato un contributo determinante, ma l’utilitarismo nel senso baconiano del termine sovente prevale. Ebbene questo libro insegna molte cose e soprattutto a capire che il linguaggio del mondo naturale di cui fanno parte piante e animali è totale e nello stesso tempo contiene molte lingue. Basta saperle ascoltare.